Natale 2014
Era la Vigilia di Natale e la neve cadeva leggera sopra Parigi. Anna pensò che il Natale precedente non aveva nevicato, ma che era stato comunque un inverno freddo con un vento incessante ed impetuoso. Il tempo giusto per starsene abbracciati con quel qualcuno così speciale.
Anna entrò dopo molti mesi nella vecchia stanza polverosa e notò subito che niente era cambiato: Il pavimento era ancora incrostato di sporcizia, l’intonaco cadeva dalle pareti e il letto non era mai stato rifatto. L’unica differenza era lo spesso strato di polvere che si era posato nell’intera stanza e che le arrivò subito ai polmoni.
Non era più il tempo degli abbracci.
Si buttò sul letto disfatto e polveroso e chiuse gli occhi.
“Posso farcela” pensò, “sistemerò le cose”.
Quel 24 Dicembre, il fantasma del Natale passato arrivò di soppiatto e le strappò il cuore.
Marta
Marta studia Lettere, indossa occhiali rosa ed è infelice.
Per fortuna le cose stanno per cambiare perché Marta sta partendo.
Marta sa che l'aspetta una nuova vita.
In valigia maglioni e jeans, subito.
Marta sa che sarà molto più felice.
Meglio non dimenticare i libri di poesie.
Marta sa che la tristezza finirà.
Bisogna fare posto anche alla macchina fotografica.
Marta sa che presto non sarà più sola.
Un posto anche per le scarpe da jogging ed il peluche preferito.
Marta sa tutto.
Che è un po' come non sapere niente.
Non c'è più spazio per il coraggio nella sua vecchia valigia.
Marta studia Lettere in Germania. Indossa occhiali rosa ed è infelice.
Eva, la bambina che si spegneva
A tavola, le chiacchiere allegre della piccola Eva disturbavano i rumori della televisione.
Perciò il padre, d'accordo con la madre, fabbricò un telecomando speciale fatto
apposta per la loro bambina.
Bastava premere un tastino rosso perché Eva si zittisse.
E da quel momento si poté cenare in pace, ascoltando la
tv.
Alice, la bambina di vernice
Alice fu dipinta da un pittore molto povero e piuttosto vecchio. L’uomo era solo, senza più una moglie e senza aver mai avuto figli, ma desiderava così tanto una bambina, che una notte decise di crearne una.
Era molto povero, così povero da non avere più fogli sui cui dipingere, perciò dovette utilizzare il muro candido di una piccola scuola elementare e, non potendosi più permettere i colori, dovette utilizzare vecchi barattoli di vernice.
Impiegò
quasi tutta la notte per creare la sua bambina, ma alla fine ci riuscì. Dipinse
una fanciulla minuta, con un lezioso vestitino nero dal colletto bianco e i
capelli rossi e ricci. La chiamò Alice.
A
lavoro finito ripose i pennelli nella logora sacca, guardò la sua bambina
dipinta, poi si voltò per tornare a casa. Si era appena incamminato quando
sentì una vocina alle sue spalle.
«Non
lasciarmi sola!»
Il
vecchio pittore si voltò per vedere chi avesse parlato, ma non vide nessuno, a
parte la bambina sul muro, che sembrava quasi, ma no, non era possibile! Non
poteva aver sbattuto le palpebre! Eppure, guardandoli bene quegli occhi azzurri
(e bisognosi?) gli sembrarono così vivi da provocargli un brivido lungo la
schiena.
Fece
per voltarsi di nuovo, convinto di avere solo immaginato quella vocina flebile,
ma la sentì di nuovo, questa volta più forte.
«Non
andare via, qui è buio!»
Si
voltò di nuovo con il vecchio cuore malandato che batteva forte. Vide di nuovo
la bambina, questa volta con i palmi rivolti verso di lui, quasi come fosse al
di là di un vetro.
Il
povero pittore gridò e, provando ad indietreggiare, inciampò.
«Cosa
sei??» urlò, non sapendo se rivolto alla bambina o al dipinto, o al muro.
«Sono
Alice!»
«Ma
non puoi essere vera, sei fatta di vernice!»
«Non
so di cosa sono fatta, però sono vera, mi hai creata tu» rispose lei.
Per
lo spavento, al vecchio pittore saltò un qualche ingranaggio cardiaco e morì.
Fu
Alice a rimanere sola.
Per
sua fortuna, non rimase sola a lungo. La mattina successiva, il cortile davanti
al suo muro era gremito di persone. Prima vennero degli uomini in divisa blu e
bianca, accompagnati da uomini in divisa candida. Questi sembravano tutti molto
interessati al vecchio pittore steso a terra, lo tastarono e poi arrivarono dei
signori vestiti tutti di nero che lo portarono via su una macchina lunga. Anche
la macchina era nera.
Dopo
averlo portato via, gli uomini blu e bianchi guardarono per bene Alice che,
spaventata per ciò che era accaduto la sera precedente, non si mosse.
Non
sentiva cosa dicevano, ma le lanciavano certe occhiatacce da farle gelare la
vernice nelle vene.
Finalmente
se ne andarono ed arrivarono dei bambini, tanti bambini, alti più o meno quanto
lei. Rimase tutto il giorno ad osservarli passare davanti al muro, ma non ebbe
mai il coraggio di muoversi. Loro però, non sembravano ostili nei suoi
confronti, anzi erano molto curiosi e si avvicinavano spesso al suo muro, con
gli occhi sgranati per la sorpresa di trovarla lì. La indicavano e poi
ridacchiavano.
Ad
Alice ne piacque uno in particolare: un bambino occhialuto, mingherlino e
abbastanza solitario.
Ad
un certo punto risuonò nell'aria un trillo insistente e fastidioso e, a quel
suono, tutti i bambini corsero dentro l’edificio.
Alice rimase di nuovo sola.
Alice rimase di nuovo sola.
Durante
la mattina, si udì spesso quel trillo prepotente, ma quando il sole iniziava ad
essere quasi alto nel cielo, suonò di nuovo ed i bambini corsero fuori. Si
sparpagliarono più o meno in ogni angolo del giardino, ma nessuno si avvicinava
a lei, avevano già tutti perso interesse.
Tutti
tranne il bambino occhialuto, che uscì dalla scuola con calma e si diresse
subito verso di lei. Si sedette sopra il marciapiede, dandole le spalle e,
molto lentamente e con estrema precisione, tirò fuori un panino.
Alice
aspettò un po’, poi si fece coraggio e disse: «Sembra molto buono».
Il
bambino si voltò per cercare la fonte di quella affermazione e, senza smettere
di masticare, vagò intorno con lo sguardo. All'ultimo, si fermò su Alice, che
era rimasta immobile. Lui però la guardò dritta negli occhi e disse: «Non è
male».
Si
fissarono per un po’, poi Alice si decise a muoversi. Lui continuò a guardarla
senza battere ciglio, dietro le spesse lenti e senza smettere di masticare.
«Io
mi chiamo Alice»
«Io
sono Teo. Come mai parli?»
«Non
lo so, credo perché chi mi ha disegnata volesse tanto che io fossi vera»
«E
dove si trova adesso?»
«Non
lo so, lo hanno portato via dei signori vestiti di nero»
Teo
rifletté un momento, fissando un punto imprecisato sotto Alice. Poi riprese a
masticare.
«Probabilmente
è morto»
«Già»
«Hai
proprio dei bei colori, Alice» disse Teo, masticando.
«Oh,
grazie!» rispose lei, mostrando un largo sorriso.
Rimasero
in silenzio per qualche altro minuto, poi si udì di nuovo il trillo insolente e
spacca timpani. Teo aveva finito il suo panino.
«Mi
piacerebbe tanto parlare ancora con te Alice, sei molto interessante» disse
lui, alzandosi e pulendo meticolosamente i jeans dalle briciole. Alice sarebbe
arrossita, ma era un dipinto e doveva accontentarsi dei colori che aveva.
«Grazie
Teo, anche io vorrei parlare di nuovo con te, mi sento tanto sola qui»
«Allora
domani tornerò qui a mangiare il panino» disse Teo, che però arrossì un poco.
Nel primo pomeriggio, il trillo squarciò l’aria per
l’ennesima volta. Di nuovo i bambini uscirono, ma questa volta non si fermarono
nel giardino, corsero bensì verso i cancelli dove le madri li stavano
aspettando. Alice cercò Teo fra la folla, non osava muoversi per la paura di
essere vista, non poteva nemmeno chiamarlo. Teo, però, si voltò verso di lei e
la salutò agitando la mano, poi andò sorridendo verso la madre.
Alice rimase sola, ad aspettare felice un nuovo
giorno da passare con il suo quasi-amico.
La mattina dopo, quando Teo arrivò nel giardino della
scuola, non trovò Alice ad aspettarlo.
In effetti, non trovò proprio niente, se non un muro
bianco.
Verniciato di fresco.
Verniciato di fresco.
Rebecca, la bambina secca
Pochi mesi dopo il loro matrimonio, Gianna e Maurizio
diedero alla luce il loro primo orto botanico. Niente figli per quella coppia
di neo-sposini, non era nei loro piani, ma ogni tipo di organismo
pluricellulare autotrofa era il benvenuto nel loro giardino. Dopotutto, si
erano innamorati grazie all’amore per la botanica.
Una sera d’estate, inebriati entrambi per il troppo
fertilizzante, fecero l’amore in un angolo remoto del giardino, dove il terreno
era più soffice.
Nove mesi dopo, da quello stesso terreno, germogliò la
grinzosa e giallognola Rebecca. Non era esattamente una bella bimba, aveva
infatti la pelle opaca, scura e piena di rughe. Era anche estremamente esile,
poco più che un secco ramoscello pronto a spezzarsi. Ma Gianna e Maurizio la
accolsero con gioia all’interno del giardino: la estrassero dolcemente dal
terreno, la battezzarono con il nome Rebecca e le affidarono il più bel vaso
che possedevano, abbastanza grande perché lei potesse crescerci dentro. Come
ogni pianta era in grado di nutrirsi autonomamente, ma era talmente secca che necessitava
di essere annaffiata a lungo e più volte durante il giorno. Spesso Gianna si
scordava, impegnata com’era a curare il resto del giardino e, quando accadeva, l’intero
corpo assumeva un colore marroncino sbiadito, le grinze sulla sua pelle
triplicavano, le foglioline sopra il capo ingiallivano e gli occhi color
resina, i suoi stupendi occhi, indurivano. La voce le diventava niente di più
che un gracchiare fastidioso e flebile, difficile da distinguere dal verso di
una cornacchia.
In passato, Maurizio e Gianna avevano vinto numerosi premi
grazie ai prodotti del loro orto, ma mai pianta fu prolifica quanto Rebecca,
con le la vittoria era assicurata! La addestrarono fin da germoglio a mettersi
in mostra: la appoggiavano sui tavoli dei concorsi di botanica e lei subito
lanciava in aria le esili braccia e sorrideva, spalancando i bellissimi occhi
color resina e sbattendo veloce le palpebre. Come bambina poteva non essere un
granché, ma come pianta era davvero uno spettacolo, non si era mai visto nulla
di simile!
Rebecca non poteva entrare in casa, perché secondo Maurizio
e Gianna avrebbe portato troppa terra, perciò avevano posizionato il suo vaso
in un angolo appartato del giardino, lo stesso nel quale era germogliata. Un
angolo lontano dalle altre piante e al riparo dal sole, che l’avrebbe asciugata
troppo velocemente. Perciò, Rebecca passava molto tempo da sola, bloccata
nell’estremità dell’orto in cui Maurizio e Gianna capitavano solo per darle
l’acqua, quando Gianna non si dimenticava.
Ogni tanto qualche animaletto passava da quelle parti e
Rebecca poteva avere qualcuno con cui comunicare: un topolino che si
arrampicava sulla sua testa, qualche ape che le ronzava attorno, un coniglio
fuggiasco e di tanto in tanto qualche uccellino che scendeva a bassa quota.
Una notte una gazza ladra le si appollaiò sul braccio e le
raccontò della vita degli alberi al di là dei confini dell’orto botanico:
niente fertilizzante, boschi, ruscelli da cui l’acqua sgorgava senza sosta, fiumi
addirittura!
«E come fa l’acqua ad arrivare alle piante se non hanno
l’annaffiatoio?» chiese Rebecca affascinata.
«Gli alberi fuori di qui non vivono nei vasi, ma hanno le
radici nel terreno» rispose la gazza, mentre si gingillava con la linguetta di
una lattina, il suo ultimo furto.
«L’acqua arriva alle piante direttamente dal terreno»
continuò.
«E possono averne quanta ne vogliono?»
«Sì, tutta quella che vogliono e di cui hanno bisogno»
Rebecca quella notte sognò di avere i piedi-radici nel
terreno, di non avere mai sete e di avere la pelle liscia, le foglie sempre
verdi e gli occhi umidi e luminosi. Al mattino si svegliò secca e con la pelle
grinzosa. Gianna si era di nuovo dimenticata di darle l’acqua.
Passarono i mesi e per Rebecca arrivò finalmente il momento del cambio del vaso. Aveva aspettato impaziente quel giorno per settimane e,
quando Maurizio e Gianna arrivarono insieme per sradicarla, Rebecca si fece
coraggio e buttò fuori la richiesta con un’unica frase: «Vorrei tanto essere
piantata nel terreno».
I due si guardarono, poi Gianna scosse la testa, estrasse
gli attrezzo per il cambio vaso e disse: «Non credo sia possibile, tesoro».
«Perché?»
«Sei ancora troppo piccola» rispose Gianna, iniziando a
scavare la terra nel vaso.
«Non sono troppo piccola! E poi ci sono piante che
germogliano nel terreno e vivono senza mai essere messe in un vaso!» protestò
Rebecca.
Maurizio si avvicinò con l’innaffiatoio e la bambino lo
pregò: «Non avrei più bisogno di essere innaffiata da voi così tanto, e potrei stare
al sole, io amo così tanto il sole!»
«Hai ragione, ma noi non potremmo più trasportarti»
intervenne Maurizio, versandole l’acqua sopra la testa.
«Ma io non voglio essere trasportata…»
«Su Rebecca non essere sciocca» tagliò corto Gianna, mentre
alzava a bambina dal vaso.
«E smettila di agitare quei piedi»
«Ma io preferirei rimanere qui con voi e non avere mai
sete!»
«Ma come? Non ti piace quando sei sul podio e tutte quelle
persone ti guardano,ti ammirano e ti premiano per la tua bellezza?»
Rebecca non rispose, ma scosse un poco la testa.
«Un giorno non sarai più adatta a tutti quei concorsi» disse
Maurizio.
«Diventerai troppo grande e non ti potremmo più trasportare.
Allora potremmo discutere del piantarti nel terreno » continuò, le diede un
buffetto sulla testolina coperta di foglie e si allontanò.
Gianna ormai aveva messo Rebecca nel nuovo vaso. Quindi si
tolse i guani, ripose gli attrezzi e si alzò.
«Su Rebecca, non farei i capricci. Devi solo avere pazienza,
ok?» disse, mentre si stava già allontanando. Rebecca annuì, mentre una lacrima
salata, uguale a quelle di chiunque, le scendeva lungo la guancia, già
leggermente secca.
E continuò ad aspettare.
Poche settimane dopo, Gianna e Maurizio la portarono ad un
nuovo concorso botanico che si sarebbe tenuto in una cittadina piuttosto
lontana. Era un avvenimento molto importante ed i due preparavano Rebecca ormai
da settimane, addirittura Gianna si era sempre ricordata di darle l’acqua.
Si diceva che la giuria sarebbe stata spietata e che ci
sarebbe stato un grosso premio di denaro e prestigio per il primo classificato.
Gianna e Maurizio avevano già progettato l’allargamento del loro giardino
botanico, perciò la vittoria era più che necessaria.
Rebecca fu favolosa e lasciò tutti a bocca aperta, nessuno
aveva mai visto qualcosa del genere! Ne furono tutti così entusiasti, giuria
compresa, che le assegnarono il primo, il secondo, il terzo premio e anche le
tre menzioni d’onore!
Nei giorni seguenti, Gianna, Maurizio e Rebecca non ebbero
un attimo di respiro. Passarono ore interminabili in balia dei giornalisti,
sorridendo a tutti, bevendo vino, mettendo in mostra Rebecca e facendola
fotografare da tutti.
Solo che, in mezzo a tutto questo trambusto, nessuno si era
ricordato di dare l’acqua a Rebecca. Lei aveva cercato più e più volte di
ricordarlo, ma i due erano così presi dalla vittoria che non la sentirono
nemmeno. Gianna la liquidò con un: «Sssh! Rebecca, stai buona».
Una sera ci fu una grande festa per la vittoria. Maurizio e
Gianna avevano posato Rebecca su un tavolo e l’avevano dimenticata, così come
gli altri. Si addormentò
Quando qualche ora dopo aprì gli occhi, le palpebre le
scricchiolarono come non mai. La pelle, ormai ridotta ad una corteccia secca e
crocchiante, sembrava pronta a spezzarsi. Guardò verso il basso e vide che
tutte le foglioline della sua testa si erano accartocciate ed erano cadute,
morte. Le venne da piangere, ma la resina degli occhi si era così indurita che
non riuscì a versare nemmeno una lacrima.
La stanza era ancora piena di gente, compresi Gianna e
Maurizio, allora tentò di chiamare aiuto. Ci mise tutta la forza di cui era
capace, ma riuscì a produrre solo un suono gracchiante e flebile. Nessuno se ne
accorse.
Rebecca, a fatica, richiuse le palpebre. Immaginò che i suoi
piedi e le sue radici poggiassero su di un terreno umido e soffice. Sentiva
attorno a sé il vento tiepido ed il cinguettio squillante degli uccellini di
bosco. Alberi più alti e grandi di lei la circondavano, la proteggevano e si
spostavano perché potesse ricevere i raggi caldi del sole.
E lei non si spaventava a quel calore.
Non aveva più sete, ormai.
Quando Gianna e Maurizio si ricordarono di lei, trovarono
solo un pezzo di legno secco, circondato da foglie morte.
Fatalità
Questa storia dovrebbe parlare di Teo, che quella mattina del 13 settembre, attraversò la strada che separava la fermata dell'autobus dall'ufficio e dalla tanto agognata promozione.
Dovrebbe parlare di come, ottenuta la promozione, Teo corse da Lidia con un mazzo di rose blu-chimico in una mano ed una scatola di cioccolatini pralinati nell'altra, per darle la bella notizia.
Dovrebbe parlare di come lei pianse di gioia e del successivo matrimonio, possibile solo grazie ai soldi in più.
Dovrebbe parlare di quando riuscirono a comprare un'auto, un seggiolino per il sedile posteriore. Di come riuscirono ad ottenere un mutuo e dentiere indistruttibili.
Sì, questa storia dovrebbe parlare di tutto questo, ma non sarà così, perché Teo non attraversò mai la strada.
Eppure fu prudente: guardò sia a destra che a sinistra prima di muovere il primo passo.
Fu allora che un elicottero gli cadde in testa.
Pillole d'ansia
Sono
stata una bambina, un’adolescente e una giovane adulta molto felice. Arrivata
alla tesi di laurea ero molto soddisfatta della mia vita: avevo un fidanzato
davvero premuroso, un’ottima media universitaria ed una famiglia molto unita.
Ma,
ahimè, ero gravemente malata.
Era
una malattia davvero insolita per l’epoca in cui vivevo, si chiamava
“Tranquillità”. Sembra che avessi una grave carenza di ansia nel mio sistema
psicologico. Tra i vari sintomi, risultavo portatrice della temutissima “Calma Innata”.
Ovviamente,
ciò influiva in modo molto negativo su ogni aspetto della mia vita, avevo
infatti grave carenze sia dal punto di vista scolastico che da quello dei
rapporti umani.
Il
professore con cui avrei dovuto preparare la tesi, mi vide così calma che mi
diede da studiare lunghissimi trattati sull'ansia: antica, moderna e
contemporanea.
I
miei preoccupati genitori, cercarono di aiutarmi nutrendomi di ansia. Pane,
burro ed affanno per colazione, pasta con aglio, olio ed apprensione a pranzo e
alla sera lasagne di inquietudine, altrimenti non facevo gli incubi.
Tuttavia,
colui che soffriva di più per la mia grave malattia, era il mio ragazzo. Non
ero una brava fidanzata, mi sarei dovuta preoccupare molto di più: essere più
gelosa, più apprensiva e più asfissiante. Era così abbattuto per queste mie mancanze
che una sera mi regalò una bellissima scatola di velluto a forma di cuore, con
all'interno tante piccole ansie.
Nessuno
però, arrivati a quel punto, riusciva ad agitarmi o a farmi perdere la mia
serenità. Fu allora che i miei genitori mi portarono dal medico, l’unico in
grado di somministrarmi qualcosa che avesse un vero effetto, ormai il tempo delle
cure omeopatiche era terminato!
Il medico rimase davvero sbalordito dalla mia calma, perciò mi prescrisse pillole d’ansia, da prendere almeno tre volte al giorno e sempre prima dei pasti. La cura durò per oltre un anno.
Il medico rimase davvero sbalordito dalla mia calma, perciò mi prescrisse pillole d’ansia, da prendere almeno tre volte al giorno e sempre prima dei pasti. La cura durò per oltre un anno.
Ora,
sono lieta di annunciare che gli sforzi congiunti della mia famiglia, del mio
ragazzo, del sistemo universitario e di quello medico, sono riusciti a rendermi
una persona ansiosa! Non sono più né tranquilla, né calma, né
rilassata, quindi posso dire di essere finalmente sana!
San Valentino
La mattina si svegliò presto, infilò le ciabatte pelose e
preparò dei biscotti al cioccolato, che poi ripose con cura in una scatoletta
di latta.
Il pomeriggio uscì risoluta, con i biscotti bruciacchiati che
sbattevano dentro allo zainetto di scuola. Quando arrivò davanti alla porta di
casa del suo amato, bussò decisa e rimase in attesa. Marino uscì e non appena la
vide, sbuffò alzando gli occhi al cielo. Fiammetta arrossì.
«Cosa vuoi?» chiese lui a braccia conserte.
Fiammetta gli allungò con le mani tremanti la scatoletta dei
biscotti. Lui gliela strappò brusco, la aprì con un gesto irritato, talmente
maldestro che i biscotti caddero a terra. Li guardò alzando un sopracciglio,
poi guardò Fiammetta e senza dire niente le restituì la scatoletta di latta.
«Allora, cosa vuoi?» ripeté lui, incrociando di nuovo le
braccia. Fiammetta guardò impassibile i biscotti a terra, tremando un poco, poi
si guardò i piedi.
«Il tuo cuore…» rispose, stringendo tra le mani la vuota scatoletta
di latta. Marino spalancò la bocca e rise diabolico, senza rispondere.
«Se tu non vorrai donarmelo, dovrò conquistarlo» continuò lei, alzando lo sguardo su di lui.
«E come pensi di fare?»
Senza muovere un solo muscolo facciale, Fiammetta lo colpì
alla testa con la scatoletta di latta, una volta, due volte, tre, quattro,
cinque, finché il suo amato non perse i sensi.
Fiammetta aprì piano lo zainetto di scuola, estrasse le forbici
dalla punta arrotondata che usavano in classe e gli squarciò il petto.
Quando gli ebbe tirato fuori il cuore, lo mise nella
scatoletta di latta.
Fiammetta era felice per aver conquistato il cuore del suo amato.
La maialina vanitosa
le fece passare una brutta mattina,
e solo per fortuna riuscì a scappare.
Molto tempo fa, nel Villaggio dei
Maiali, viveva una maialina molto graziosa di nome Gloria. Era considerata la
maialina più carina del Villaggio e anche di tutti i villaggi vicini.
Aveva una magnifica pelle liscia e
rosa, come un pesca, delle zampette tutte minute e un bel naso tondo e
tenerello, la coda arricciata come nemmeno il migliore dei cavatappi e dei
bellissimi occhi vispi.
Quando passeggiava per la strada
tutti si voltavano a guardarla, quando parlava tutti i suoi milioni di
innamorati pendevano dalle sue labbra e, se per caso capitava che posasse il
suo sguardo su qualche maialino, quello diventava subito tutto rosso per la
vergogna e scappava a nascondersi.
Aveva imparato molto presto di
essere graziosa. Fin da quando era una maialina da latte i suoi parenti suini
l’avevano fatta crescere a pane e complimenti, ma così tanto che da grandicella
i complimenti erano quasi più importanti del pane. Cosa assai strana per un
maiale!
Quando usciva di casa stava ben attenta
ad essere sempre in ordine: si sistemava la pelle, la codina e le orecchie in
modo che fosse tutto perfetto ed usciva a caccia di lusinghe.
Quando passeggiava con le amiche,
si metteva sempre davanti per essere vista prima di tutte. Teneva il muso ben
alzato e zampetta dopo zampetta camminava in modo che tutti si voltassero a
guardarla.
Le amiche cercavano sempre di
metterla in guardia e le dicevano: “Gloria, cara Gloria, vedrai che essere così
vanitosa non ti porterà niente di buono! Devi diventare un po’ più umile!”. Ma
Gloria non le ascoltava, anzi le liquidava con un gesto stizzito della bella
coda a cavatappi e diceva: “Taci tu, cosa ne vuoi sapere? La vostra è solo
invidia”. Ed un po’ era vero.
Accadde però che un giorno in cui
Gloria non aveva incontrato nessuno che le facesse i complimenti, si spinse molto
oltre il vecchio recinto del Villaggio, in ricerca disperata di un poco di
adulazione. Non poteva proprio rimanere tutto il giorno senza!
Camminò nel grande prato fino a che
il Villaggio dei Maiali non fu soltanto un piccolo puntino all'orizzonte. Ma vagando
qui e là, non si era accorta di essere seguita da due Bipedi. E non due Bipedi
qualsiasi, ma proprio due brutti ceffi scappati di prigione! Uno era alto,
grasso e con la barba lunga e molto folta, il secondo invece era basso e magro,
con gli incisivi così sporgenti da farlo assomigliare ad un castoro.
Avevano molta fame e sulla strada
non avevano trovato ancora nulla da mangiare, perciò quando da lontano videro
la maialina tutta sola, decisero che sarebbe stata il loro prossimo pasto. La
osservarono gironzolare e dopo aver discusso su come catturarla, il Bipede castorino,
che era anche il più intelligente dei due, disse che sarebbe stato meglio
avvicinarla con l’inganno per poi acchiapparla.
I due maligni quindi, si
avvicinarono alla bella Gloria, ma piano per non farle paura, ed il barbuto
esclamò: “Ma guarda qui che porcellina bella e graziosa! Ti sei persa?”.
Gloria rimase lontano dai due
brutti Bipedi, ma a sentirsi dire “bella e graziosa” si era tutta lusingata e
aveva alzato il bel muso verso i due furfanti. Raggiante per i complimenti
rispose: “Ma che razza di domande! E’ ovvio che non mi sono persa! Sono solo
uscita dal recinto del Villaggio per farmi una passeggiata.”
“Ma una maialina così carina non
dovrebbe girare tutta sola.”
“So cavarmela benissimo, grazie.”
rispose Gloria sbattendo le ciglia.
Allora il farabutto con la faccia
da castoro, che aveva capito che Gloria era molto vanitosa, le disse: “Ma
guarda che bella codina tutta ondulata! Non ho mai visto un ricciolo più
bello!”. E Gloria si gonfiò tutta per l’orgoglio, ma rimase lontana dai due
delinquenti.
“E che belle orecchie, sono così
ovali, proprio perfette!” incalzò l’altro farabutto.
“Oh ma la ringrazio!” rispose lei
gongolando.
“E che zampette piccole e delicate,
non ne ho mai viste di così belle!”
“Addirittura?”
“Ma certo! E che pelle delicata,
sembra fatta con petali di rosa!”
“Ma voi scherzate...”
“Assolutamente no! E che nasino
incantevole, sembra una scultura!”
Insomma, le dissero così tanti
complimenti, che alla fine Gloria pendeva dalle loro labbra e, senza accorgersene,
si era avvicinata sempre di più ad ogni complimento, tanto che ormai i due
Bipedi avrebbero potuto acchiapparla con un balzo. Ed infatti il più grosso dei
due, dopo un segnale del castoro, con un balzo le fu sopra e la immobilizzò.
Povera Gloria, proprio non
immaginava che due esseri tanto adulatori potessero essere anche due malvagi
criminali, e per lo più affamati!
Si mise a piangere mentre la
legavano e li pregò di lasciarli andare, ma i due si misero a ridere e quello
basso disse: “Cara porcellina, dovevi imparare ad essere meno vanitosa!”
“Ma io non vi ho fatto niente di
male.”
“ Proprio così, sei stata solo
molto sfortunata, ma se tu fossi stata più furba non sarebbe successo.”
Il più alto se la caricò in spalla
ed insieme la portarono sulla cima di un colle, dove la posarono per poi
allestire uno spiedo. Gloria non aveva smesso un attimo di piangere e di
pregarli, ma loro non si erano lasciati intenerire dalle sue lacrime.
I due brutti ceffi però non
riuscivano ad accendere un fuoco, infatti erano sprovvisti sia di accendino che
di fiammiferi, allora il barbuto prese due pietre ed iniziò a fregarle, il
castoro si irritò: “Stupido! Così non accenderai proprio un bel niente!” disse,
poi gli strappò le pietre dalle mani e si misero a bisticciare su come
accendere il fuoco, dando le spalle alla povera Gloria. Allora la maialina, che
si era accorta che i due Bipedi maligni l’avevano portata sulla cima di un piccolo
colle, capì che avrebbe potuto provare a rotolare giù. Infatti, con tutte le
zampette legate non poteva sicuramente correre, ma dondolandosi piano, piano
sulla schiena, facendo meno rumore possibile, era riuscita a girarsi. Ripetendo
piano la stessa operazione riuscì ad arrivare fino al bordo del colle, a quel
punto trattenne il fiato e si lasciò cadere.
Rotolò come fosse dentro una
botte, velocissima, schiacciandosi il
muso, le zampe, le orecchie, ingoiando erba, urtando sassolini e schiacciando
animaletti.
Quando arrivò in fondo vide che i
nodi che la tenevano legata si erano consumati e poi sciolti, allora iniziò a
correre. E corse, corse, corse fino a
che non vide spuntare all'orizzonte il Villaggio dei Maiali, e non si fermò
quando si scheggio una zampetta, e nemmeno quando urtò un sasso in mezzo
all'erba. Corse fino a quando non arrivò alla staccionata che divideva il
pacifico Villaggio dal resto del mondo.
Così la maialina Gloria tornò a casa
e di una nuova lezione era persuasa:
ci si caccia in guai assai spinosi,
ad essere troppo vanitosi!
P.S: "La maialina vanitosa" fa parte di un progetto personale più ampio, in collaborazione con: http://massitruzzi.blogspot.it/ :)
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